Il Consiglio di Stato 
             in sede giurisdizionale (Adunanza plenaria) 
 
ha pronunciato la presente 
 
                              Ordinanza 
 
    Sul ricorso numero di registro generale  28  di  A.P.  del  2014,
proposto  da:  Giuseppe  Severini,  Luigi  Maruotti,  Carmine  Volpe,
Giampiero Paolo Cirillo, Luigi  Carbone,  Luciano  Barra  Caracciolo,
Alessandro Botto, Rosanna De Nictolis e Marco Lipari, rappresentati e
difesi dall'avv. Massimo Congedo, con domicilio eletto presso Alfredo
Placidi in Roma, via Cosseria n. 2; 
    Contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, in  persona  del
Presidente  pro   tempore,   rappresentato   e   difeso   per   legge
dall'Avvocatura  generale,  domiciliata  in  Roma,   alla   via   dei
Portoghesi n. 12; 
    Per la riforma della sentenza del T.A.R. Lazio - Roma: sezione  I
n.   04104/2010,   resa   tra   le   parti,    concernente    diniego
dell'applicazione  dell'art.  4,  comma  9,  legge  n.   425/1984   -
trattamento economico superiore - ris. danni; 
    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; 
    Visto l'atto  di  costituzione  in  giudizio  di  Presidenza  del
Consiglio dei ministri; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 luglio 2015 il  cons.
Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati Pietro  Quinto
per delega dell'avvocato Massimo Congedo, e  l'avvocato  dello  Stato
Chiarina Aiello; 
    1.  Con  la  sentenza  impugnata  il   tribunale   amministrativo
regionale del Lazio - sede di Roma, ha respinto il ricorso  di  primo
grado,  corredato  da  motivi  aggiunti,   proposto   dagli   odierni
appellanti al fine  di  ottenere  l'annullamento  della  nota  del  3
febbraio 2003 con cui la Presidenza del Consiglio dei ministri  aveva
respinto, previo riesame, le istanze di esecuzione di nove  decisioni
del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 di accoglimento
dei ricorsi straordinari finalizzati all'erogazione  del  trattamento
economico spettante, a titolo di adeguamento  stipendiale,  ai  sensi
dell'art. 4, comma 9, della legge 6 agosto 1984, n. 425. 
    Le decisioni assunte  dal  Capo  dello  Stato  avevano  affermato
l'obbligo  per  l'amministrazione  di   determinare   i   trattamenti
economici dei ricorrenti ai sensi del citato art. 4, comma  9,  cit.,
tenendo  conto  del  superiore  trattamento  spettante  ai   colleghi
collocati in ruolo in posizione successiva ai ricorrenti stessi. 
    In data 9 luglio 2000 la Presidenza  del  Consiglio  aveva  pero'
negato l'attribuzione, in favore degli interessati,  del  trattamento
economico come sopra determinato, fornendo esecuzione solo parziale a
quattro delle nove decisioni. 
    Gli  odierni  appellanti  avevano  allora  proposto  ricorso  per
l'esecuzione del giudicato. La sentenza di accoglimento  del  ricorso
in executivis, pronunciata dal Consiglio di Stato, e' stata  tuttavia
annullata  dalla  Suprema  Corte  di  Cassazione   per   difetto   di
giurisdizione (Cass. civ. Sez. unite, 18 dicembre 2001, n. 15978). 
    A fronte di ulteriori istanze di  esecuzione  avanzate  da  parte
degli  stessi  interessati,  la   Presidenza   del   Consiglio,   con
l'impugnata  nota  del  3  febbraio  2003   (resa   in   esito   alla
trasmissione, da parte della Segreteria  generale  del  Consiglio  di
Stato, degli schemi aggiornati dei rispettivi  decreti  individuali),
aveva respinto le  nuove  richieste  degli  istanti,  opponendo  loro
l'effetto preclusivo prodotto dall'art. 50, comma 4, della  legge  n.
388 del 2000. 
    Detta norma stabilisce, al penultimo e ultimo  periodo,  che  «il
nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si  intende
abrogato dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge  n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  359  del
1992, e perdono ogni efficacia i  provvedimenti  e  le  decisioni  di
autorita'  giurisdizionali  comunque  adottati  difformemente   dalla
predetta interpretazione dopo la data suindicata. In  ogni  caso  non
sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti  sulla  base  dei
predetti decisioni o provvedimenti». 
    Il tribunale adito, con ordinanza n. 6971  del  14  luglio  2004,
peraltro, aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata  la
questione di legittimita' costituzionale  di  siffatta  disposizione,
per contrasto con gli articoli 3, 24, 100,  103  e  113  della  Carta
fondamentale, nella parte in cui tale norma, esplicitando la  portata
retroattiva dell'abrogazione, avrebbe inciso in modo  definitivamente
sacrificativo sulle posizioni individuali gia' riconosciute  mediante
decisioni su ricorsi straordinari divenute definitive. 
    Con la sentenza n.  282  del  15  luglio  2005,  la  Consulta  ha
respinto la questione di  costituzionalita',  poggiando  sull'assunto
che la decisione amministrativa resa su ricorso straordinario non  e'
dotata della forza di giudicato che costituisce  limite  invalicabile
all'esplicazione,   con    efficacia    retroattiva,    del    potere
interpretativo del legislatore e garanzia dell'affidamento  legittimo
del ricorrente  vittorioso  circa  l'intangibilita'  dell'assetto  di
interessi sancito nello jussum giurisdizionale. 
    Riassunto il giudizio innanzi al Tar, i ricorrenti, facendo  leva
sull'entrata in vigore dell'art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69
e sull'art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui
al decreto legislativo 2 luglio 2010,  n.  104,  hanno  sostenuto  la
tesi,  sviluppata  nei  successivi  motivi  aggiunti,   della   piena
«giurisdizionalizzazione» del rimedio straordinario. Hanno  soggiunto
che la finalita' di revisione, perseguita dalla normativa de  qua  ai
sensi  della  VI   disposizione   transitoria   della   Costituzione,
evidenzierebbe  la  naturale  estensione  ex   tunc   della   portata
effettuale dell'intervento riformatore  alle  decisioni  rese  in  un
torno di tempo anteriore. 
    Con la sentenza appellata i primi  giudici,  facendo  leva  sulla
portata. caducatoria sancita  dal  citato  art.  50  della  legge  n.
388/2000,  hanno  respinto  il  ricorso.  Il  primo  giudice  ha,  in
particolare, negato che, per effetto dell'entrata in vigore dello jus
superveniens di cui all'art. 69 della legge n.  69/2009,  il  ricorso
straordinario al Capo dello Stato sia divenuto  un  mezzo  di  tutela
giurisdizionale e che, in ogni caso, tale  modificazione  legislativa
possa interessare, alla stregua di  una  previsione  legislativa  con
carattere  di  «interpretazione  autentica»,  anche  le   fattispecie
definite in base all'assetto normativo anteriore. 
    Muovendo da tali premesse il  primo  giudice  ha  negato  che  le
decisioni con le quali la  pretesa  economica  dei  ricorrenti  aveva
trovato  accoglimento,  in  quanto  decisioni  «giurisdizionali»  (e,
conseguentemente, assistite da forza di  giudicato),  possano  essere
insensibili alla portata applicativa dell'art.  50,  comma  4,  della
citata legge n. 388/2000. 
    Richiamate le argomentazioni svolte  dalla  Corte  costituzionale
con la decisione n.  282/2005,  il  tribunale  ha  sostenuto  che  il
travolgimento degli effetti delle decisioni successive all'entrata in
vigore del decreto legge n. 333/1992 colpisce anche gli  atti  con  i
quali il Capo dello Stato aveva  deciso  i  ricorsi  straordinari  in
senso  favorevole  agli  odierni   appellanti,   restando   da   tale
conseguenza immuni unicamente le  «sentenze  passate  in  giudicato»,
ossia le «decisioni di autorita'  giurisdizionali»,  non  gia'  delle
decisioni amministrative irrevocabili o definitive. 
    2.  Avverso  la  sentenza  di  prime  cure  le  parti  ricorrenti
propongono appello. 
    Con il primo motivo  di  censura  si  sostiene  che  la  sentenza
gravata sarebbe viziata ex art. 112 del codice di  procedura  civile,
in ragione del mancato esame dei parametri  di  costituzionalita'  di
cui agli  articoli  3,  10,  11,  28,  97,  100  e  117  della  Carta
fondamentale. 
    Il tribunale di prima istanza ha parimenti errato  nell'affermare
che  l'art.  69  della   legge   n.   69   del   2009   non   avrebbe
«giurisdizionalizzato» l'istituto e che, comunque -  ove  anche  cio'
fosse  avvenuto  -  detta  modifica   non   presenterebbe   carattere
retroattivo. 
    Con la seconda e la terza censura gli appellanti hanno  criticato
il capo della gravata decisione che ha negato la  natura  di  rimedio
giurisdizionale del ricorso straordinario. 
    Con i motivi da 3.1 a  3.4  ci  si  e'  soffermati  sulla  natura
interpretativa (e, percio', retroattiva) delle disposizioni di cui al
richiamato art. 69 della legge del 2009. 
    Con il quarto motivo di gravame si fa  presente  che,  ove  anche
fosse stata negata la natura giurisdizionale  del  decreto  decisorio
del ricorso straordinario, l'art. 4 dell'art. 50 della legge  n.  388
del 2000 - ove interpretato non senso di  ritenerlo  riferibile  alle
decisioni rese in sede di  ricorso  straordinario  -  avrebbe  dovuto
essere ritenuto in contrasto con la CEDU. 
    Con il  quinto  motivo  sono  stati  riproposti  i  parametri  di
asserito  conflitto  della  disposizione   normativa   suddetta   non
esaminati dalla Corte costituzionale. 
    Con il sesto motivo e' stata riproposta la domanda  risarcitoria,
da considerarsi anche autonoma rispetto al petitum principale. 
    Si e' costituita la Presidenza del  Consiglio  dei  ministri  per
resistere alle pretese degli appellanti. 
    Le  parti  hanno  affidato  al  deposito  di   apposite   memorie
l'ulteriore illustrazione delle rispettive tesi difensive. 
    Con ordinanza 4 novembre 2014, n. 5506, la IV sezione  di  questo
Consiglio ha rimesso al vaglio dell'Adunanza  plenaria  la  soluzione
del  quesito  relativo  alla  portata   retroattiva   della   riforma
dell'istituto  del  ricorso   straordinario   al   Presidente   della
Repubblica. 
    All'udienza dell'8 luglio 2015 la causa e' stata  trattenuta  per
la decisione. 
    3. Il collegio reputa che siano rilevanti  e  non  manifestamente
infondati i dubbi di legittimita'  costituzionale  sollevati  con  il
prioritario e assorbente  motivo  di  ricorso  con  cui  denuncia  il
contrasto dell'art. 50, comma 4, ultimi due periodi, della  legge  n.
388/2000, con gli articoli 6 e 13 della CEDU e,  quindi,  con  l'art.
117, comma 1 della Costituzione. 
    3.1.   Si   deve   preliminarmente   escludere   la    fondatezza
dell'assunto, sostenuto dai ricorrenti, secondo cui il contrasto  tra
legislazione nazionale interna e normativa CEDU debba  esser  risolto
con la disapplicazione della prima. 
    Questa Adunanza  deve  osservare,  in  senso  contrario  a  detta
impostazione ermeneutica, che risulta acquisita nella  giurisprudenza
costituzionale (cfr., ex plurimis, sentenze n. 348 e n.  349/2907  in
materia   espropriativa)   la   convinzione   relativa    alla    non
assimilabilita'  delle  norme  della  Convenzione  EDU   alle   norme
comunitarie  se,  executing  ai  fini   dell'applicazione   immediata
nell'ordinamento interno. La Corte delle leggi ha chiarito,  infatti,
come  solo  le  norme  comunitarie  «debbano  avere  piena  efficacia
obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri,  senza
la necessita' di leggi di ricezione e adattamento, come  atti  aventi
forza e valore di legge in ogni Paese della Comunita', si' da entrare
ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale
ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari»  (sentenze  n.  183
del 1973 e n. 170 del 1980.  Il  fondamento  costituzionale  di  tale
efficacia diretta e' stato  individuato  nell'art.  11  Cost.,  nella
parte in cui  consente  le  limitazioni  della  sovranita'  nazionale
necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali
rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. 
    Il riferito indirizzo giurisprudenziale  non  riguarda  le  norme
CEDU, giacche' si e'  escluso  che  possa  venire  in  considerazione
l'art. 11 Cost., «non essendo  individuabile,  con  riferimento  alle
specifiche  norme  pattizie  in  esame,  alcuna   limitazione   della
sovranita' nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione  tra
le norme CEDU  e  le  norme  comunitarie  deve  essere  ribadita  nel
presente giudizio in quanto le prime, pur  assolvendo  alla  funzione
primaria di tutela e di valorizzazione dei diritti e  delle  liberta'
fondamentali delle persone,  sono  pur  sempre  norme  internazionali
patrizie, che vincolano lo Stato, ma non  producono  effetti  diretti
nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici
nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte,
con  connessa  disapplicazione  delle  norme  interne  in   eventuale
contrasto. 
    L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con
la riforma del titolo V della parte seconda  della  Costituzione,  ha
confermato  il  citato  orientamento  giurisprudenziale  della  Corte
costituzionale.  La  disposizione   costituzionale   ora   richiamata
distingue  infatti,  in  modo  significativo,  i  vincoli   derivanti
dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi
internazionali». 
    Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma  anche
sostanziale. Con l'adesione  ai  trattati  comunitari,  l'Italia  e',
infatti, entrata a far parte  di  un  «ordinamento»  piu'  ampio,  di
natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranita',  anche  in
riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei trattati
medesimi, con il solo limite dell'intangibilita' dei principi  e  dei
diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. 
    La Convenzione EDU, invece, non  crea  un  ordinamento  giuridico
sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente  applicabili
negli Stati  contraenti.  Essa  e'  configurabile  come  un  trattato
internazionale   multilaterale,   pur    con    le    caratteristiche
significativamente peculiari, da  cui  derivano  «obblighi»  per  gli
Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento  giuridico
italiano in un  sistema  piu'  vasto,  dai  cui  organi  deliberativi
possano promanare  norme  vincolanti,  omisso  medio,  per  tutte  le
autorita' interne degli Stati membri. 
    Si deve allora escludere che il  dedotto  contrasto  della  norma
censurata con la normativa CEDU, come  interpretata  dalla  Corte  di
Strasburgo,  possa  legittimare  il  giudice  a  quo   alla   diretta
disapplicazione della norma interna asseritamente non compatibile con
la seconda. 
    Va ribadita anche l'esclusione delle norme CEDU, in quanto  norme
pattizie, dall'ambito di operativa dell'art. 10, primo comma,  Cost.,
in conformita' alla costante  giurisprudenza  della  Consulta  (vedi,
ancora, sentenze n.  348  e  n.  349/2007).  La  citata  disposizione
costituzionale, con l'espressione «norme del  diritto  internazionale
generalmente  riconosciute»,  si  riferisce   soltanto   alle   norme
consuetudinarie e dispone  l'adattamento  automatico,  rispetto  alle
stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme  convenzionali,
ancorche' generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o
multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del  suddetto
art. 10. Di questa categoria fa parte la  CEDU,  con  la  conseguente
«impossibilita' di assumere le relative  norme  quali  parametri  del
giudizio di legittimita' costituzionale, di per se' sole (sentenza n.
188 del  1980),  ovvero  come  norme  interposte  ex  art.  10  della
Costituzione» (ordinanza n. 143  del  1993;  conformi,  ex  plurimis,
sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del
1999, ed ordinanza n. 464 del 2005). 
    Dando continuita' all'indirizzo sostenuto  recentemente  ribadito
da questa Adunanza plenaria (ordinanza 4 marzo 2015, n. 2),  si  deve
allora    concludere    che,    nonostante    taluni     orientamenti
giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario,  risulta  aderente
al quadro normativo vigente l'assunto secondo cui  le  norme  interne
contrastanti con le norme pattizie internazionali,  ivi  compresa  la
CEDU, sono suscettibili unicamente di sindacato accentrato  da  parte
della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sentenze n.  348  e  n.
349 del 2007; n. 39/2008; n. 311 e n. 317 del 2009; n. 138 e  n.  187
del 2010; n. 1, n. 80, n. 113, n. 236, n. 303, del 2011). 
    Le norme della CEDU,  cosi'  come  interpretate  dalla  Corte  di
Strasburgo,  assumono  infatti  rilevanza  nell'ordinamento  italiano
quali norme interposte. Alla CEDU e' quindi riconosciuta un'efficacia
intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il  parametro
di cui all'art.  117,  comma  1,  Cost.  che  vincola  i  legislatori
nazionali,  statale  e  regionali,  a   conformarsi   agli   obblighi
internazionali assunti dallo Stato.  Tale  posizione  non  e'  mutata
neanche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che,
all'art. 6, prevede l'adesione dell'Unione europea  alla  Convenzione
CEDU. Anche tale innovazione non ha «comportato  un  mutamento  della
collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema  delle  fonti,
tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte»
(Corte cost. sentenza n. 80/2011). 
    Di conseguenza, il giudice del caso concreto, allorche' si  trovi
a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge  interna,
sara'  tenuto  a  sollevare  un'apposita  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    Rimane salva l'interpretazione  «conforme  alla  Convenzione»,  e
quindi conforme  agli  impegni  internazionali  assunti  dall'Italia,
delle norme interne. Tale interpretazione, anzi,  si  rende  doverosa
per il giudice che', prima di  sollevare  un'eventuale  questione  di
legittimita', e' tenuto ad interpretare la disposizione nazionale  in
modo conforme a costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009,
n. 239, punto 3 del considerato in diritto). 
    3.1.1.  La  struttura  dell'art.  117  Cost.  si   presenta,   in
definitiva, simile  a  quella  di  altre  norme  costituzionali,  che
sviluppano la loro concreta operativita' solo  se  poste  in  stretto
collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale,  destinate
a dare contenuti ad un parametro che si limita ad  enunciare  in  via
generale  una  qualita'  che  le  leggi  in  esso  richiamate  devono
possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato
alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge  ordinaria.  A
prescindere dall'utilizzazione, per  indicare  tale  tipo  di  norme,
dell'espressione «fonti interposte», ricorrente in dottrina ed in una
nutrita serie di pronunce della Corte  costituzionale  (ex  plurimis,
cfr. sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n.  533
del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del  2007),  ma  di
cui viene talvolta contestata l'idoneita' a designare  una  categoria
unitaria, si deve riconoscere che il parametro  costituito  dall'art.
117, primo comma,  Cost.  diventa  concretamente  operativo  solo  se
vengono determinati quali siano  gli  «obblighi  internazionali»  che
vincolano la potesta' legislativa dello Stato e  delle  regioni.  Nel
caso specifico  sottoposto  alla  valutazione  di  questa  Corte,  il
parametro viene integrato e reso operativo dalle norme  della,  CEDU,
la cui funzione e'  quindi  di  concretizzare  nella  fattispecie  la
consistenza degli obblighi internazionali dello Stato. 
    La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la
caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un  organo
giurisdizionale, la Corte europea per i  diritti  dell'uomo,  cui  e'
affidata la funzione  di  interpretare  le  norme  della  Convenzione
stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1,  stabilisce:  «La  competenza
della  Corte  si   estende   a   tutte   le   questioni   concernenti
l'interpretazione e  l'applicazione  della  Convenzione  e  dei  suoi
protocolli che siano sottoposte  ad  essa  alle  condizioni  previste
negli articoli 33, 34 e 47». 
    Poiche' le norme giuridiche vivono  nell'interpretazione  che  ne
danno gli operatori  del  diritto,  i  giudici  in  primo  luogo,  la
naturale conseguenza che deriva  dall'art.  32,  paragrafo  1,  della
Convenzione  e'  che  tra   gli   obblighi   internazionali   assunti
dall'Italia con la sottoscrizione e la  ratifica  della  CEDU  vi  e'
quello di  adeguare  la  propria  legislazione  alle  norme  di  tale
trattato,  nel  significato  attribuito  dalla  Corte  specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed  applicazione.  Non  si
puo'  parlare  quindi  di  una  competenza  giurisdizionale  che   si
sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano,  ma
di una funzione interpretativa  eminente  che  gli  Stati  contraenti
hanno riconosciuto  alla  Corte  europea,  contribuendo  con  cio'  a
precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia. 
    3.1.2. Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU,
quali interpretate dalla Corte di  Strasburgo,  acquistano  la  forza
delle norme costituzionali e sono percio'  immuni  dal  controllo  di
legittimita' costituzionale  di  questa  Corte.  Proprio  perche'  si
tratta  di  norme  che  integrano  il  parametro  costituzionale,  ma
rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, e'  necessario
che esse siano conformi a  Costituzione  (vedi  ancora  Corte  cost.,
sentenza n. 348/2007). La  particolare  natura  delle  stesse  norme,
diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa si'
che lo  scrutinio  di  costituzionalita'  non  possa  limitarsi  alla
possibile  lesione  dei  principi  e  dei  diritti  fondamentali  (ex
plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991,
n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi  supremi  (ex  mutis,
sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175  del
1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982,  n.  203
del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di  contrasto  tra  le
«norme interposte» e quelle costituzionali. 
    L'esigenza  che  le  norme  che   integrano   il   parametro   di
costituzionalita' siano esse stesse  conformi  alla  Costituzione  e'
assoluta e inderogabile, per  evitare  il  paradosso  che  una  norma
legislativa venga dichiarata incostituzionale  in  base  ad  un'altra
norma  sub-costituzionale,  a  sua  volta   in   contrasto   con   la
Costituzione. In occasione di  ogni  questione  nascente  da  pretesi
contrasti tra norme interposte e norme legislative  interne,  occorre
verificare congiuntamente la conformita' a Costituzione di entrambe e
precisamente  la  compatibilita'  della  norma  interposta   con   la
Costituzione e la legittimita' della norma  censurata  rispetto  alla
stessa norma interposta. 
    Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con
norma  costituzionale,  questa  Corte  ha  il  dovete  di  dichiarare
l'inidoneita' della stessa ad integrare  il  parametro,  provvedendo,
nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano. 
    3.1.3. Poiche', come chiarito sopra, le norme della  CEDU  vivono
nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea,
la verifica di compatibilita' costituzionale deve riguardare la norma
come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in se' e  per
se' considerata. Si deve peraltro escludere  che  le  pronunce  della
Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini  del
controllo di costituzionalita' delle leggi nazionali. Tale  controllo
deve sempre ispirarsi al ragionevole  bilanciamento  tra  il  vincolo
derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117,
primo comma, Cost., e la tutela  degli  interessi  costituzionalmente
protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. 
    In sintesi, la completa operativita' delle norme interposte  deve
superare  il  vaglio  della  loro  compatibilita'  con  l'ordinamento
costituzionale italiano, che non  puo'  essere  modificato  da  fonti
esterne,  specie   se   queste   non   derivano   da   organizzazioni
internazionali rispetto alle quali siano state accettate  limitazioni
di sovranita' come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione. 
    3.2. Applicando le coordinate ermeneutiche  fin  qui  esposte  al
caso di specie si deve  escludere  la  possibilita'  di  disapplicare
l'art. 50, comma 4, della legge n. 388/2000,  per  contrasto  con  la
normativa CEDU, in quanto, ove sussistente, il  conflitto  metterebbe
in luce un dubbio di costituzionalita' per violazione dell'art.  117,
comma 1, Cost. Va poi  osservato  che  l'intervento,  nel  corso  del
giudizio di primo grado,  della  sentenza  n.  282/2005  della  Corte
costituzionale, resa con esclusivo riferimento a parametri nazionali,
non preclude la sollevazione di nuova questione di legittimita' sulla
scorta del diverso  paradigma  dell'art.  117,  comma  1,  Cost.,  in
funzione del rilievo delle norme interposte  di  derivazione  europea
come   fonti   di   completamento   e   integrazione   del   precetto
costituzionale. 
    4. Il collegio ritiene che i dubbi di legittimita' costituzionale
sollevati in via gradata dagli appellanti, con  riferimento  all'art.
117 Cost., siano rilevanti e non manifestamente infondati. 
    4.1. Sul piano della  rilevanza  e'  sufficiente  rammentare  che
l'effetto preclusivo sancito dalla norma denunciata (art.  50,  comma
4, della legge n. 388/2000) costituisce l'unica ragione  del  diniego
opposto dall'amministrazione alle rivendicazioni dei ricorrenti e  il
solo motivo a fondamento  del  decisum  sfavorevole  reso  dai  primi
giudici. 
    4.2. Venendo al profilo  della  non  manifesta  infondatezza,  il
collegio deve in primo luogo escludere che  si  possa  accedere  alla
tesi, sostenuta in via poziore dagli appellanti, secondo cui anche le
decisioni su ricorsi straordinari rese prima della riforma  del  2009
esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di
una forza resistente all'interveto caducatorio del legislatore. 
    4.2.1. Con le sentenze n. 9 e n. 10  del  2013  questa  Adunanza,
portando a compimento un discorso avviato con la  precedete  sentenza
n.   18/2012,   ha   riconosciuto   il   carattere    sostanzialmente
giurisdizionale del rimedio straordinario e dell'atto terminale della
relativa procedura. 
    Un rilievo  decisivo  e'  stato  all'uopo  assegnato  al  disegno
riformatore portato a compimento con la legge n.  69/2009  e  con  il
codice del processo amministrativo. 
    Assume rilievo, in prima battuta, l'art. 69 della legge 18 giugno
2009, n. 69, recante «disposizioni  per  lo  sviluppo  economico,  la
competitivita' nonche' in materia di processo civile». 
    Il primo comma ha introdotto, sotto forma di periodo aggiunto  al
testo dell'art. 13, primo comma, alinea, del decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 1199/1971, una norma  a  tenore  della  quale  il
Consiglio di Stato, «se ritiene  che  il  ricorso  non  possa  essere
deciso  indipendentemente  dalla  risoluzione  di  una  questione  di
legittimita' costituzionale che non risulti manifestamente infondata,
sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e  i  motivi
della questione,  ordina  alla  segreteria  l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli  effetti  di
cui agli articoli 23 e seguenti della legge 11 manzo 1953, n. 87». 
    Il secondo comma dell'art. 69  cit.  ha  disposto  l'aggiunta  al
primo periodo del primo comma dell'art. 14 del medesimo  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 1199/1971 delle  parole  «conforme  al
parere del Consiglio di Stato» e la soppressione del secondo  periodo
del primo comma dello  stesso  articolo,  nonche'  l'abrogazione  del
secondo   comma,   in   tal   guisa   eliminando   la   possibilita',
originariamente  contemplata,  che  il  Ministero  ratione   materiae
competente, nel formulare la proposta di  decreto  presidenziale,  si
discosti  dal  parere  espresso  dal  Consiglio   di   Stato   previa
sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei ministri. 
    L'art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di  cui
al decreto legislativo 2 luglio 2010,  n.  104  ha,  dal  canto  suo,
stabilito che il ricorso straordinario e' ammissibile unicamente  per
le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (cfr., nel
senso dell'inapplicabilita' di  detto  jus  superveniens  ai  ricorsi
proposti in un torno di tempo anteriore  all'entrata  in  vigore  del
codice, Cons. Stato, Ad gen., parere 22 febbraio 2011, n. 4520). 
    Tale sviluppo normativo di cui si e' dato conto depone nel  senso
dell'assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere
del Consiglio di Stato, della  natura  sostanziale  di  decisione  di
giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale.
Ne deriva il superamento della linea interpretativa  tradizionalmente
orientata  nel  senso  della  natura   amministrativa   del   decreto
presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialita'  tali
da segnalare la contiguita' alle pronunce del giudice amministrativo. 
    Assume rilievo decisivo, in particolare, lo jus superveniens  che
ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di  Stato,
con il connesso  riconoscimento  della  legittimazione  dello  stesso
Consiglio a sollevare,  in  detta  sede,  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    Una volta acquisito che la paternita' effettiva  della  decisione
e' da  ricondurre  all'apporto  consultivo  del  Consiglio  di  Stato
connotato  da  una  suitas  giurisdizionale  e  che,   pertanto,   il
provvedimento  finale  e'  meramente  dichiarativo  di  un   giudizio
formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo,
si deve convenire che l'atto  finale  della  procedura  e'  esercizio
della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere  del  Consiglio
di Stato che, in posizione di  terzieta'  e  di  indipendenza  e  nel
rispetto delle regole del  contraddittorio,  opera  una  verifica  di
legittimita' dell'atto impugnato (cosi' Cass., Sez. un., 19  dicembre
2012, n. 23464). 
    In definitiva il decreto presidenziale che recepisce  il  parere,
pur non essendo, in ragione della natura dell'organo  e  della  forma
dell'atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale,  e'
estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale  che  culmina
in  una  decisione  caratterizzata  dal  crisma  dell'intangibilita',
propria del giudicato, all'esito di  una  procedura  in  unico  grado
incardinata sulla base del consenso delle parti. 
    La  matrice  sostanzialmente  giurisdizionale  del   rimedio   e'
corroborata dalle indicazioni  ricavabili  dal  codice  del  processo
amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010,  n.  104.
Merita menzione, in particolare, l'art. 7, comma 8, che,  nel  quadro
di  una  disciplina  dedicata  alla  definizione   del   concetto   e
dell'estensione  della  giurisdizione   amministrativa,   limita   la
praticabilita'  del  ricorso  straordinario  alle  sole  controversie
devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo e, quindi,  ai
campi  nei  quali,  in  ragione  della  consistenza  della  posizione
soggettiva azionata o in funzione della materia  di  riferimento,  il
giudice amministrativo e' dotato di giurisdizione. La «giurisdizione»
diventa quindi presupposto generale  di  ammissibilita'  del  ricorso
straordinario, non diversamente  da  quanto  accade  per  il  ricorso
ordinario  al  giudice  amministrativo.  In  tal  guisa  si  sancisce
l'attrazione   del   ricorso   straordinario   nel   sistema    della
giurisdizione amministrativa di  cui  costituisce  forma  speciale  e
semplificata di esplicazione. 
    La rimozione della possibilita' che il ricorso straordinario  sia
promosso in materie in cui il  giudice  amministrativo  e'  privo  di
giurisdizione, rafforza, poi, il  connotato  dell'alternativita'  del
rimedio,  cancellando   l'ipotesi   di   un   ricorso   straordinario
concorrente,    nelle    materie    estranee    alla    giurisdizione
amministrativa, con quello giurisdizionale e, soprattutto, eliminando
l'ostacolo che tale anomalia avrebbe rappresentato sulla strada della
sostanziale giurisdizionalizzazione di siffatta tecnica di tutela. 
    Proprio la valorizzazione  delle  coordinate  normative  fin  qui
esaminate ha di recente indotto la Corte di legittimita' ad assegnare
al decreto che definisce  il  ricorso  straordinario  la  valenza  di
decisione costituente esercizio della giurisdizione  riferibile,  nel
contenuto recato  dal  parere  vincolante,  al  Consiglio  di  Stato,
naturaliter sottoposta al sindacato delle Sezioni unite  della  Corte
di cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione ex articoli
111, comma 8, Cost., 362, comma 1, del codice di procedura  civile  e
110 del codice del processo amministrativo (Cass., sezioni unite,  19
dicembre 2012, n. 23464). 
    La  Corte  di  cassazione  ha  nell'occasione  osservato  che  il
riconoscimento  della  natura  sostanzialmente  giurisdizionale   del
rimedio, con il corollario dell'ammissibilita'  del  sindacato  della
Corte  di  cassazione  sul  rispetto   dei   limiti   relativi   alla
giurisdizione, non contrasta con il disposto dell'art. 125, comma  2,
Cost., in materia di istituzione in ambito  regionale  di  organi  di
giustizia amministrativa di primo  grado,  in  quanto,  anche  a  non
considerare  che   la   riserva,   elaborata   dalla   giurisprudenza
costituzionale  intende  in  realta'   impedire   l'attribuzione   ai
tribunali  amministrativi  regionali  competenze  giurisdizionali  in
unico grado (Corte cost. n. 108 del 2009), in ogni caso  la  garanzia
del doppio grado di  giurisdizione  e'  pienamente  assicurata  dalla
circostanza che sono le stesse parti ad optare  per  il  procedimento
speciale che consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato. 
    La circostanza  ipotetica  che  il  decreto  presidenziale  possa
essere  affetto  da   vizi   propri   del   procedimento   successivo
all'adozione del parere, connessa alla struttura ancora composita del
ricorso   straordinario   e   radicata   nelle    origini    storiche
dell'istituto, non inficia ne' indebolisce l'essenza  giurisdizionale
della decisione che ha come unico sostrato  motivazionale  il  parere
vincolante reso dal Consiglio di Stato. 
    La tendenziale  assimilazione  del  ricorso  straordinario  a  un
rimedio schiettamente giurisdizionale e' stata ribadita  dalla  Corte
costituzionale che, con la sentenza 26 marzo 2014, n. 73, ha ritenuto
infondato il dubbio di legittimita' costituzionale, sotto il  profilo
del difetto di delega, dell'art. 7, comma 8, del codice del  processo
amministrativo, osservando che,  per  effetto  di  queste  modifiche,
«l'istituto   ha   perduto   la   propria   connotazione    puramente
amministrativa e  ha  assunto  la  qualita'  di  rimedio  giustiziale
amministrativo, con caratteristiche strutturali e funzionali in parte
assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo». 
    4.2.2. Le considerazioni svolte da  questa  Adunanza  plenaria  e
dalla giurisprudenza  della  Corte  delle  leggi  e  della  Corte  di
legittimita' sulla portata sostanziale delle modifiche apportate alla
disciplina dell'istituto,  e  sulla  conseguente  riconducibilita'  a
dette novita' del superamento della connotazione  amministrativa  del
rimedio, impediscono di ritenere che anche  alle  decisioni  rese  in
precedenza possa essere riconosciuta una valenza  giurisdizionale  e,
quindi, l'intangibilita' propria della res iudicata. Si deve  infatti
convenire che non viene in rilievo una  revisione  interpretativa  di
portata  retroattiva,  ma  una  riforma  sostanziale  ontologicamente
inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura  giuridica  di
decreti presidenziali adottati in un contesto  normativo  in  cui  la
decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione  di
statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora  considerarsi
espressione di «funzione giurisdizionale» nel  significato  pregnante
dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1. 
    A sostegno  dell'assunto  della  portata  non  retroattiva  della
novella si pone, quindi, la decisiva considerazione  che  la  valenza
sostanzialmente giurisdizionale del  decisum  e'  ora  fondata  sulla
riconduzione, gia' in  astratto,  della  paternita'  esclusiva  della
decisione all'autorita' giurisdizionale. Ne deriva l'assenza di detto
requisito  sostanziale  per  le  decisioni  adottate  in  un   regime
caratterizzato, prima dell'entrata in vigore dell'art. 69 della legge
n.  69/2009,  dalla  concorrente  paternita'  in  capo  all'autorita'
amministrativa, legittimata a esprimere, attraverso  un  aggravamento
procedurale, un avviso  contrario  a  quello  sostenuto  nell'apporto
consultivo del Consiglio di Stato. Si deve soggiungere che non assume
rilievo la circostanza  concreta  che,  con  riferimento  al  singolo
ricorso, il parere del Consiglio di Stato non sia stato disatteso, in
quanto la natura giurisdizionale, o non, di una  proceduta  rimediale
non puo' che essere valutata  alla  stregua  dal  dato  astratto  del
paradigma  normativo  di  riferimento.  Paradigma  che,  prima  delle
riforme  di  cui  si  e'  dato  conto,  non  attribuiva  al   giudice
amministrativo il potere di decidere in via esclusiva  l'esito  della
controversia. 
    4.2.3.  Non  giova  agli  appellanti  l'insistito   accento   sul
maggioritario   indirizzo   pretorio   che   ammette    il    rimedio
dell'ottemperanza,   ex   art.   112   del   codice   del    processo
amministrativo, anche per le decisioni rese su ricorso  straordinario
nell'assetto normativo tradizionale. Si deve, al riguardo,  convenire
con l'amministrazione appellata nel senso che  l'ottemperabilita'  di
una decisione e' una qualitas non  sovrapponibile  a  quella  diversa
della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge. 
    Posto, infatti, che, nell'architettura dell'art.  112,  comma  1,
del codice del processo amministrativo, il giudizio  di  ottemperanza
non e' ammesso solo per le sentenze passate in giudicato (lettere a),
c) e d), primo inciso), ma anche per le sentenze esecutive  e  per  i
provvedimenti esecutivi (lettera b), per i  provvedimenti  equiparati
(lettera d) e per i lodi arbitrali (lettera e),  si  deve  concludere
che  la  questione  dell'equiparazione  della  decisione  su  ricorso
amministrativo extra ordinem a una sentenza passata in giudicato  dal
punto di vista della procedura «di attuazione dello iussum -  risolta
in senso positivo dalla giurisprudenza prevalente  alla  stregua  del
principio processualistico tempus regit actum, sotteso all'art. 5 del
codice di procedura civile - non si ripercuote  sul  differente  tema
della sussistenza di una forza sostanziale del regolamento  decisorio
sussumibile nel concetto di giudicato e, quindi, tale da resistere al
dispiegarsi dell'intervento legislativo. A tale  ultimo  quesito  non
puo' che rispondersi negativamente, in  quanto  l'intangibilita'  del
decisum, alla stregua dei parametri normativi  nazionali,  presuppone
una paternita' esclusivamente giurisdizionale che  nella  specie  era
esclusa  dallo  schema  normativo  di  riferimento  ratione  temporis
operante. 
    4.3. Tali coordinate interpretative sono state poste a fondamento
della sentenza  n.  282/2005  con  cui  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato infondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
degli ultimi due periodi del comma 4  dell'art.  50  della  legge  n.
388/2000. 
    La disposizione censurata, in tema di trattamento  economico  dei
magistrati, disciplina, con una norma di  interpretazione  autentica,
la portata e la decorrenza dell'abrogazione del nono comma  dell'art.
4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, norma,  quest'ultima,  ai  sensi
della quale per il  personale  che  avesse  conseguito  la  nomina  a
magistrato di corte d'appello o a magistrato di corte di cassazione a
seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4  gennaio  1963,
n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l'anzianita'  veniva
determinata in misura pari a quella  riconosciuta  al  magistrato  di
pari qualifica con maggiore anzianita' effettiva che lo  seguiva  nel
ruolo. 
    La disposizione oggetto del dubbio di legittimita' costituzionale
precisa, in primo luogo, che il citato  nono  comma  dell'art.  4  si
intende abrogato dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  8
agosto 1992, n. 359, il quale, con l'art. 2, comma 4, aveva soppresso
l'istituto dell'allineamento stipendiale; prevede  inoltre  che,  per
effetto di detta abrogazione con effetto  retroattivo,  perdono  ogni
efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorita' giurisdizionali
comunque adottati,  dopo  la  data  suindicata,  difformemente  dalla
predetta interpretazione, e che, in ogni caso, non sono dovuti e  non
possono essere eseguiti pagamenti sulla  base  di  tali  decisioni  o
provvedimenti. Il giudice a quo aveva denunciato questa  norma  nella
parte in cui, esplicitando la portata retroattiva dell'abrogazione da
essa contemplata, dispone la perdita degli  effetti  delle  decisioni
irrevocabili rese nel regime dell'alternativita' dal Presidente della
Repubblica adito con ricorso straordinario ed intervenute prima della
sua entrata in vigore. 
    Con la sentenza n. 282/2005 la Corte costituzionale,  dopo  avere
premesso che il suo esame si sarebbe limitato ai  confini  del  thema
decidendum individuato dall'ordinanza di remissione, ha ritenuto  che
la norma di interpretazione autentica di cui  all'art.  50,  volta  a
riconoscere un'incompatibilita' sistematica  gia'  realizzatasi,  con
riguardo all'istituto del riallineamento stipendiale, a partire dalla
data di entrata in vigore del decreto-legge n.  333  del  1992,  deve
essere  intesa,  alla  luce  del  dato  letterale  e   dell'argomento
costituzionale, nel senso  di  fare  salve  le  sentenze  passate  in
giudicato,  mentre  non  esiste  alcuna  preclusione  che   impedisca
l'operativita' dell'intervento legislativo ai danni  delle  decisioni
adottate, nel regime dell'alternativa,  con  decreto  del  Presidente
della Repubblica in sede di decisione sul ricorso straordinario. 
    La Corte  ha  osservato,  sul  punto,  che  «essendo  il  ricorso
straordinario al Capo  dello  Stato  un  rimedio  per  assicurare  la
risoluzione  non  giurisdizionale  di  una   controversia   in   sede
amministrativa, deve escludersi che la decisione che conclude  questo
procedimento amministrativo di secondo grado abbia la  natura  o  gli
effetti degli atti di tipo giurisdizionale». Di  qui  la  conclusione
secondo cui la disposta perdita di efficacia dei provvedimenti  (tali
dovendosi considerare i decreti del Presidente della  Repubblica  con
cui  vengono  decisi  i  ricorsi  straordinari)   comunque   adottati
difformemente dalla interpretazione che vuole abrogato il nono  comma
dell'art. 4 della legge n. 425 del 1984 sin dalla data di entrata  in
vigore del decreto-legge n.  333  del  1992,  non  lede  i  parametri
costituzionali invocati, in quanto la garanzia costituzionale da essi
prevista si riferisce al diritto di agire nella sede  giurisdizionale
e  non  nella  sede  amministrativa  del  ricorso  straordinario   al
Presidente della Repubblica. 
    5. Esclusa la praticabilita' della via dell'interpretazione della
norma in esame secondo un'accezione compatibile con  la  salvaguardia
delle  precedenti  decisioni  rese  in  via  definitiva  su   ricorsi
straordinari, quest'Adunanza reputa non  manifestamente  infondati  i
dubbi di legittimita' costituzionale che la lettura ora esposta  pone
con riferimento all'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  alla  luce  dei
parametri  CEDU,  non  esaminati  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 282/2005. 
    Il  collegio  reputa  infatti  seri,  alla  luce  dei   parametri
ricavabili dalla CEDU, e quindi alla stregua dell'art. 117, comma  1,
della Costituzione, i dubbi relativi all'art. 50, comma 4,  penultimo
ed ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, nella  parte  in  cui
detta  norma,  nell'unica  interpretazione  plausibile,  produce   il
travolgimento di una decisione alternativa di giustizia che, pur  non
avendo  carattere  schiettamente  giurisdizionale,  risolve  in  modo
definitivo e inoppugnabile una controversia. 
    5.1. Osserva, in via preliminare, questa Adunanza che la garanzia
dell'affidamento  legittimo  del  ricorrente  vittorioso  in   merito
all'intangibilita' dell'assetto di interessi sancito della  decisione
favorevole viene tutelato, in ambito comunitario ed europeo,  secondo
un'accezione lata ed elastica del concetto  di  «giurisdizione»,  che
non attribuisce rilievo al profilo qualificatorio e al dato  formale,
ma valorizza la definitivita' della decisione e l'essenza giustiziale
della funzione. 
    In questo quadro si iscrive  la  giurisprudenza  della  Corte  di
giustizia UE che, a partire dal leading case di cui al  parere  della
sezione V, 16 ottobre 1997, in cause c-69/96 e 79/96, ha  considerato
il Consiglio di Stato che  esprime  il  parere  in  sede  di  ricorso
straordinario una giurisdizione  legittimata  a  sollevare  questioni
pregiudiziali di carattere interpretativo ai sensi dell'art. 234  del
trattato CE (art. 267 del trattato per il  funzionamento  dell'Unione
europea), mettendo l'accento, alla luce del  principio  generale  del
cd. «effetto utile», sulla sussistenza di un  organo  permanente  con
funzioni giustiziali, sulla funzione di risoluzione  di  controversie
in via imparziale e indipendente nonche'  sul  carattere  contenzioso
della procedura e sulla definitivita' dell'esito della stessa. 
    La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha fornito, dal canto
suo, un  contributo  decisivo  alla  piena  equiparazione,  sotto  il
profilo dell'assimilazione  dei  livelli  di  tutele,  tra  decisioni
giurisdizionali e amministrative, rimarcando, a piu' riprese, che, ai
sensi degli articoli 6 e 13 CEDU, le decisioni finali  di  giustizia,
rese da un'autorita' che non fa parte dell'Ordine giudiziario, ma che
siano equiparate dal punto di vista procedurale  e  dell'efficacia  a
una decisione giudiziaria,  devono  essere  passibili  di  attuazione
coattiva  in  un  sistema  che  prevede  esecuzione  come  seconda  e
indefettibile fase  della  lite  definita  («The  execution  must  be
riguaded as an integral part of trial»).  Piu'  in  radice,  siffatte
statuizioni   devono   essere   caratterizzate    dall'intangibilita'
dell'assetto  stabilito  con  l'atto   decisorio,   ai   fini   della
salvaguardia  dell'affidamento  legittimo  ingenerato  (C.E.D.U.   16
dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15  febbraio  2004,  Romosirov  c.
Ucraina; 19 marzo 1997, Hornsby c, Grecia). 
    In questo tessuto di garanzie, volto a limitare  l'emanazione  di
norme retroattive, risultano vietate  norme  retroattive  sfavorevoli
che  estendano  l'applicabilita'  di  una  norma   interpretativa   a
precedenti decisioni  irrevocabili,  ossia  ad  arret  definitive  et
obligatoire (C.E.D.U., sez. IV,  Zielinski  c.  Francia,  28  ottobre
1989; sez.. IV, 10 novembre 2004, Lizarraga c. Spagna, che ha escluso
che  una  legge  retroattiva  possa  incidere  contra   personam   ed
estinguere intangibile right). 
    5.2. Tale  indirizzo  giurisprudenziale  induce  a  ritenere  che
l'ordinamento italiano, nella misura in cui ammette  l'intervento  di
una legge provvedimento  volta  a  vanificare  decisioni  definitive,
anche se non stricto  sensu  giurisdizionali,  si  pone  in  sospetto
contrasto con  l'ordinamento  convenzionale  europeo  che  impone  un
superiore standard superiore di tutela, prevedendo,  ai  sensi  degli
articoli 6 e 13  della  CEDU,  come  vivificati  dall'interpretazione
fornita dalla Corte europea, l'assoluta  intangibilita'  anche  delle
decisioni amministrative caratterizzate da una judicial review,  come
tali equated to a Court decision. Viene, quindi, in gioco il pacifico
principio della prevalenza  delle  disposizioni  CEDU  che  prevedono
livelli superiore di protezione rispetto alle Costituzioni  nazionali
(Corte  cost.  n.  311/2009),  sulla  scorta  di  principi   vieppiu'
applicabili nell'ordinamento nazionale anche in epoca anteriore  alla
riforma dell'art. 117 Cost. (vedi Corte cost. sentenze n.  348  e  n.
349/2007  sull'incostituzionalita'  parziale  dell'art.   5-bis   del
decreto-legge n. 333/1992, in materia espropriativa). 
    Dette coordinate ermeneutiche sono con evidenza riferibili  anche
alla  decisione  sul   ricorso   straordinario   che,   anche   nella
conformazione anteriore a quella plasmata dalla legge n. 69/2009, era
caratterizzato,   nelle   materie   affidate   dalla    giurisdizione
amministrativa,  «dall'irrevocabilita'  e   immodificabilita'   della
decisione e  dalla  sua  insindacabilita'  da  parte  di  ogni  altra
autorita' amministrativa e giurisdizionale» (cfr., ex  multis,  Corte
di giustizia dell'Unione europea  18  settembre  2003,  C-292/01;  23
dicembre 2009, C-303/08). 
    Stante la pacifica integrazione  dei  canoni  costituzionali,  ai
sensi dell'art. 117, comma 1, Cost., con le  norme  CEDU  quali  nome
interposte (nella specie gli articoli 6  e  13  del  trattato  CEDU),
risultano pertanto non manifestamente infondati i dubbi  legittimita'
costituzionale dell'art. 50, comma 4, ultimi due periodi, della legge
n. 388/2000, nella parte in cui detta norma prevede la  vanificazione
degli effetti di una decisione definitiva di giustizia che, secondo i
parametri   convenzionali,   va   equiparata    a    una    decisione
giurisdizionale dal punto di vista dell'effettivita' e della pienezza
della   tutela   oltre   che   dell'intangibilita'   dell'affidamento
ragionevole e legittimo assicurato dall'esito del giudizio. 
    Posto,  infatti,  che  la  tutela  delle  posizioni  dei  diritti
soggettivi  e  degli  interessi  legittimi  degli   amministrati   e'
assegnata dall'ordinamento positivo anche al ricorso straordinario in
via alternativa, sono di dubbia compatibilita' con la  giurisprudenza
CEDU, in punto di garanzia della piena tutela giurisdizionale  e  del
giusto  processo,  le  limitazioni   legislative   che   pregiudicano
l'effettivita' di tale rimedio vanificandone gli esiti definitivi. 
    6. La normativa in questione pone anche dubbi  di  compatibilita'
con gli articoli 3  e  97,  Cost.,  in  quanto,  alla  stregua  delle
coordinate interpretative tracciate dalla Consulta (vedi Corte  cost.
376/1995; 282/2005;  103/2007;  267/2007;  241/2008),  con  la  legge
provvedimento non e' possibile esercitare un potere, atipico rispetto
al novero dei poteri amministrativi tipizzati, diretto a incidere  in
via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni  consolidatesi
per effetto di decisioni irreversibili. 
    Piu' in  generale  la  cancellazione  degli  effetti  di  singole
decisioni ai danni dei ricorrenti vittoriosi rischia di  arrecare  un
vulnus, non giustificato da idonee ragioni di interesse generale,  al
principio di eguaglianza e al canone di ragionevolezza. 
    7. Per quanto precede, si profilano non manifestamente infondati,
oltre   che   rilevanti,   i   dubbi   relativi   alla   legittimita'
costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo  ed  ultimo  periodo,
della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui tale  norma,
esplicitando  la  portata  retroattiva   dell'abrogazione   da   essa
contemplata, prevede che  questa  possa  travolgere  anche  posizioni
individuali  gia'  riconosciute   mediante   decisioni   su   ricorsi
straordinari ormai divenute definitive, in sospetto conflitto con gli
articoli 3, 97 e 117 della Costituzione. 
    Va quindi disposta la sospensione del  giudizio,  con  rimessione
degli atti alla Consulta e riserva di ogni ulteriore decisione.