Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza plenaria) ha pronunciato la presente Ordinanza Sul ricorso numero di registro generale 28 di A.P. del 2014, proposto da: Giuseppe Severini, Luigi Maruotti, Carmine Volpe, Giampiero Paolo Cirillo, Luigi Carbone, Luciano Barra Caracciolo, Alessandro Botto, Rosanna De Nictolis e Marco Lipari, rappresentati e difesi dall'avv. Massimo Congedo, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria n. 2; Contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale, domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12; Per la riforma della sentenza del T.A.R. Lazio - Roma: sezione I n. 04104/2010, resa tra le parti, concernente diniego dell'applicazione dell'art. 4, comma 9, legge n. 425/1984 - trattamento economico superiore - ris. danni; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei ministri; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 luglio 2015 il cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati Pietro Quinto per delega dell'avvocato Massimo Congedo, e l'avvocato dello Stato Chiarina Aiello; 1. Con la sentenza impugnata il tribunale amministrativo regionale del Lazio - sede di Roma, ha respinto il ricorso di primo grado, corredato da motivi aggiunti, proposto dagli odierni appellanti al fine di ottenere l'annullamento della nota del 3 febbraio 2003 con cui la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva respinto, previo riesame, le istanze di esecuzione di nove decisioni del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 di accoglimento dei ricorsi straordinari finalizzati all'erogazione del trattamento economico spettante, a titolo di adeguamento stipendiale, ai sensi dell'art. 4, comma 9, della legge 6 agosto 1984, n. 425. Le decisioni assunte dal Capo dello Stato avevano affermato l'obbligo per l'amministrazione di determinare i trattamenti economici dei ricorrenti ai sensi del citato art. 4, comma 9, cit., tenendo conto del superiore trattamento spettante ai colleghi collocati in ruolo in posizione successiva ai ricorrenti stessi. In data 9 luglio 2000 la Presidenza del Consiglio aveva pero' negato l'attribuzione, in favore degli interessati, del trattamento economico come sopra determinato, fornendo esecuzione solo parziale a quattro delle nove decisioni. Gli odierni appellanti avevano allora proposto ricorso per l'esecuzione del giudicato. La sentenza di accoglimento del ricorso in executivis, pronunciata dal Consiglio di Stato, e' stata tuttavia annullata dalla Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass. civ. Sez. unite, 18 dicembre 2001, n. 15978). A fronte di ulteriori istanze di esecuzione avanzate da parte degli stessi interessati, la Presidenza del Consiglio, con l'impugnata nota del 3 febbraio 2003 (resa in esito alla trasmissione, da parte della Segreteria generale del Consiglio di Stato, degli schemi aggiornati dei rispettivi decreti individuali), aveva respinto le nuove richieste degli istanti, opponendo loro l'effetto preclusivo prodotto dall'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000. Detta norma stabilisce, al penultimo e ultimo periodo, che «il nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorita' giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata. In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti». Il tribunale adito, con ordinanza n. 6971 del 14 luglio 2004, peraltro, aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale di siffatta disposizione, per contrasto con gli articoli 3, 24, 100, 103 e 113 della Carta fondamentale, nella parte in cui tale norma, esplicitando la portata retroattiva dell'abrogazione, avrebbe inciso in modo definitivamente sacrificativo sulle posizioni individuali gia' riconosciute mediante decisioni su ricorsi straordinari divenute definitive. Con la sentenza n. 282 del 15 luglio 2005, la Consulta ha respinto la questione di costituzionalita', poggiando sull'assunto che la decisione amministrativa resa su ricorso straordinario non e' dotata della forza di giudicato che costituisce limite invalicabile all'esplicazione, con efficacia retroattiva, del potere interpretativo del legislatore e garanzia dell'affidamento legittimo del ricorrente vittorioso circa l'intangibilita' dell'assetto di interessi sancito nello jussum giurisdizionale. Riassunto il giudizio innanzi al Tar, i ricorrenti, facendo leva sull'entrata in vigore dell'art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e sull'art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, hanno sostenuto la tesi, sviluppata nei successivi motivi aggiunti, della piena «giurisdizionalizzazione» del rimedio straordinario. Hanno soggiunto che la finalita' di revisione, perseguita dalla normativa de qua ai sensi della VI disposizione transitoria della Costituzione, evidenzierebbe la naturale estensione ex tunc della portata effettuale dell'intervento riformatore alle decisioni rese in un torno di tempo anteriore. Con la sentenza appellata i primi giudici, facendo leva sulla portata. caducatoria sancita dal citato art. 50 della legge n. 388/2000, hanno respinto il ricorso. Il primo giudice ha, in particolare, negato che, per effetto dell'entrata in vigore dello jus superveniens di cui all'art. 69 della legge n. 69/2009, il ricorso straordinario al Capo dello Stato sia divenuto un mezzo di tutela giurisdizionale e che, in ogni caso, tale modificazione legislativa possa interessare, alla stregua di una previsione legislativa con carattere di «interpretazione autentica», anche le fattispecie definite in base all'assetto normativo anteriore. Muovendo da tali premesse il primo giudice ha negato che le decisioni con le quali la pretesa economica dei ricorrenti aveva trovato accoglimento, in quanto decisioni «giurisdizionali» (e, conseguentemente, assistite da forza di giudicato), possano essere insensibili alla portata applicativa dell'art. 50, comma 4, della citata legge n. 388/2000. Richiamate le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con la decisione n. 282/2005, il tribunale ha sostenuto che il travolgimento degli effetti delle decisioni successive all'entrata in vigore del decreto legge n. 333/1992 colpisce anche gli atti con i quali il Capo dello Stato aveva deciso i ricorsi straordinari in senso favorevole agli odierni appellanti, restando da tale conseguenza immuni unicamente le «sentenze passate in giudicato», ossia le «decisioni di autorita' giurisdizionali», non gia' delle decisioni amministrative irrevocabili o definitive. 2. Avverso la sentenza di prime cure le parti ricorrenti propongono appello. Con il primo motivo di censura si sostiene che la sentenza gravata sarebbe viziata ex art. 112 del codice di procedura civile, in ragione del mancato esame dei parametri di costituzionalita' di cui agli articoli 3, 10, 11, 28, 97, 100 e 117 della Carta fondamentale. Il tribunale di prima istanza ha parimenti errato nell'affermare che l'art. 69 della legge n. 69 del 2009 non avrebbe «giurisdizionalizzato» l'istituto e che, comunque - ove anche cio' fosse avvenuto - detta modifica non presenterebbe carattere retroattivo. Con la seconda e la terza censura gli appellanti hanno criticato il capo della gravata decisione che ha negato la natura di rimedio giurisdizionale del ricorso straordinario. Con i motivi da 3.1 a 3.4 ci si e' soffermati sulla natura interpretativa (e, percio', retroattiva) delle disposizioni di cui al richiamato art. 69 della legge del 2009. Con il quarto motivo di gravame si fa presente che, ove anche fosse stata negata la natura giurisdizionale del decreto decisorio del ricorso straordinario, l'art. 4 dell'art. 50 della legge n. 388 del 2000 - ove interpretato non senso di ritenerlo riferibile alle decisioni rese in sede di ricorso straordinario - avrebbe dovuto essere ritenuto in contrasto con la CEDU. Con il quinto motivo sono stati riproposti i parametri di asserito conflitto della disposizione normativa suddetta non esaminati dalla Corte costituzionale. Con il sesto motivo e' stata riproposta la domanda risarcitoria, da considerarsi anche autonoma rispetto al petitum principale. Si e' costituita la Presidenza del Consiglio dei ministri per resistere alle pretese degli appellanti. Le parti hanno affidato al deposito di apposite memorie l'ulteriore illustrazione delle rispettive tesi difensive. Con ordinanza 4 novembre 2014, n. 5506, la IV sezione di questo Consiglio ha rimesso al vaglio dell'Adunanza plenaria la soluzione del quesito relativo alla portata retroattiva della riforma dell'istituto del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. All'udienza dell'8 luglio 2015 la causa e' stata trattenuta per la decisione. 3. Il collegio reputa che siano rilevanti e non manifestamente infondati i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati con il prioritario e assorbente motivo di ricorso con cui denuncia il contrasto dell'art. 50, comma 4, ultimi due periodi, della legge n. 388/2000, con gli articoli 6 e 13 della CEDU e, quindi, con l'art. 117, comma 1 della Costituzione. 3.1. Si deve preliminarmente escludere la fondatezza dell'assunto, sostenuto dai ricorrenti, secondo cui il contrasto tra legislazione nazionale interna e normativa CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima. Questa Adunanza deve osservare, in senso contrario a detta impostazione ermeneutica, che risulta acquisita nella giurisprudenza costituzionale (cfr., ex plurimis, sentenze n. 348 e n. 349/2907 in materia espropriativa) la convinzione relativa alla non assimilabilita' delle norme della Convenzione EDU alle norme comunitarie se, executing ai fini dell'applicazione immediata nell'ordinamento interno. La Corte delle leggi ha chiarito, infatti, come solo le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessita' di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunita', si' da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1980. Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta e' stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranita' nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacche' si e' escluso che possa venire in considerazione l'art. 11 Cost., «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranita' nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente giudizio in quanto le prime, pur assolvendo alla funzione primaria di tutela e di valorizzazione dei diritti e delle liberta' fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali patrizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, con connessa disapplicazione delle norme interne in eventuale contrasto. L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il citato orientamento giurisprudenziale della Corte costituzionale. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali». Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale. Con l'adesione ai trattati comunitari, l'Italia e', infatti, entrata a far parte di un «ordinamento» piu' ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranita', anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilita' dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa e' configurabile come un trattato internazionale multilaterale, pur con le caratteristiche significativamente peculiari, da cui derivano «obblighi» per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorita' interne degli Stati membri. Si deve allora escludere che il dedotto contrasto della norma censurata con la normativa CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, possa legittimare il giudice a quo alla diretta disapplicazione della norma interna asseritamente non compatibile con la seconda. Va ribadita anche l'esclusione delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operativa dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformita' alla costante giurisprudenza della Consulta (vedi, ancora, sentenze n. 348 e n. 349/2007). La citata disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme convenzionali, ancorche' generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilita' di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimita' costituzionale, di per se' sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005). Dando continuita' all'indirizzo sostenuto recentemente ribadito da questa Adunanza plenaria (ordinanza 4 marzo 2015, n. 2), si deve allora concludere che, nonostante taluni orientamenti giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario, risulta aderente al quadro normativo vigente l'assunto secondo cui le norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la CEDU, sono suscettibili unicamente di sindacato accentrato da parte della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sentenze n. 348 e n. 349 del 2007; n. 39/2008; n. 311 e n. 317 del 2009; n. 138 e n. 187 del 2010; n. 1, n. 80, n. 113, n. 236, n. 303, del 2011). Le norme della CEDU, cosi' come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono infatti rilevanza nell'ordinamento italiano quali norme interposte. Alla CEDU e' quindi riconosciuta un'efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all'art. 117, comma 1, Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Tale posizione non e' mutata neanche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, all'art. 6, prevede l'adesione dell'Unione europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non ha «comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte» (Corte cost. sentenza n. 80/2011). Di conseguenza, il giudice del caso concreto, allorche' si trovi a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge interna, sara' tenuto a sollevare un'apposita questione di legittimita' costituzionale. Rimane salva l'interpretazione «conforme alla Convenzione», e quindi conforme agli impegni internazionali assunti dall'Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende doverosa per il giudice che', prima di sollevare un'eventuale questione di legittimita', e' tenuto ad interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239, punto 3 del considerato in diritto). 3.1.1. La struttura dell'art. 117 Cost. si presenta, in definitiva, simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operativita' solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualita' che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell'espressione «fonti interposte», ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce della Corte costituzionale (ex plurimis, cfr. sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata l'idoneita' a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere che il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli «obblighi internazionali» che vincolano la potesta' legislativa dello Stato e delle regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della, CEDU, la cui funzione e' quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato. La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui e' affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47». Poiche' le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione e' che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi e' quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si puo' parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con cio' a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia. 3.1.2. Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono percio' immuni dal controllo di legittimita' costituzionale di questa Corte. Proprio perche' si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, e' necessario che esse siano conformi a Costituzione (vedi ancora Corte cost., sentenza n. 348/2007). La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa si' che lo scrutinio di costituzionalita' non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex mutis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le «norme interposte» e quelle costituzionali. L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalita' siano esse stesse conformi alla Costituzione e' assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformita' a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilita' della norma interposta con la Costituzione e la legittimita' della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con norma costituzionale, questa Corte ha il dovete di dichiarare l'inidoneita' della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano. 3.1.3. Poiche', come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilita' costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in se' e per se' considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalita' delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In sintesi, la completa operativita' delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilita' con l'ordinamento costituzionale italiano, che non puo' essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranita' come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione. 3.2. Applicando le coordinate ermeneutiche fin qui esposte al caso di specie si deve escludere la possibilita' di disapplicare l'art. 50, comma 4, della legge n. 388/2000, per contrasto con la normativa CEDU, in quanto, ove sussistente, il conflitto metterebbe in luce un dubbio di costituzionalita' per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. Va poi osservato che l'intervento, nel corso del giudizio di primo grado, della sentenza n. 282/2005 della Corte costituzionale, resa con esclusivo riferimento a parametri nazionali, non preclude la sollevazione di nuova questione di legittimita' sulla scorta del diverso paradigma dell'art. 117, comma 1, Cost., in funzione del rilievo delle norme interposte di derivazione europea come fonti di completamento e integrazione del precetto costituzionale. 4. Il collegio ritiene che i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati in via gradata dagli appellanti, con riferimento all'art. 117 Cost., siano rilevanti e non manifestamente infondati. 4.1. Sul piano della rilevanza e' sufficiente rammentare che l'effetto preclusivo sancito dalla norma denunciata (art. 50, comma 4, della legge n. 388/2000) costituisce l'unica ragione del diniego opposto dall'amministrazione alle rivendicazioni dei ricorrenti e il solo motivo a fondamento del decisum sfavorevole reso dai primi giudici. 4.2. Venendo al profilo della non manifesta infondatezza, il collegio deve in primo luogo escludere che si possa accedere alla tesi, sostenuta in via poziore dagli appellanti, secondo cui anche le decisioni su ricorsi straordinari rese prima della riforma del 2009 esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di una forza resistente all'interveto caducatorio del legislatore. 4.2.1. Con le sentenze n. 9 e n. 10 del 2013 questa Adunanza, portando a compimento un discorso avviato con la precedete sentenza n. 18/2012, ha riconosciuto il carattere sostanzialmente giurisdizionale del rimedio straordinario e dell'atto terminale della relativa procedura. Un rilievo decisivo e' stato all'uopo assegnato al disegno riformatore portato a compimento con la legge n. 69/2009 e con il codice del processo amministrativo. Assume rilievo, in prima battuta, l'art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante «disposizioni per lo sviluppo economico, la competitivita' nonche' in materia di processo civile». Il primo comma ha introdotto, sotto forma di periodo aggiunto al testo dell'art. 13, primo comma, alinea, del decreto del Presidente della Repubblica n. 1199/1971, una norma a tenore della quale il Consiglio di Stato, «se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimita' costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 23 e seguenti della legge 11 manzo 1953, n. 87». Il secondo comma dell'art. 69 cit. ha disposto l'aggiunta al primo periodo del primo comma dell'art. 14 del medesimo decreto del Presidente della Repubblica n. 1199/1971 delle parole «conforme al parere del Consiglio di Stato» e la soppressione del secondo periodo del primo comma dello stesso articolo, nonche' l'abrogazione del secondo comma, in tal guisa eliminando la possibilita', originariamente contemplata, che il Ministero ratione materiae competente, nel formulare la proposta di decreto presidenziale, si discosti dal parere espresso dal Consiglio di Stato previa sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei ministri. L'art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 ha, dal canto suo, stabilito che il ricorso straordinario e' ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (cfr., nel senso dell'inapplicabilita' di detto jus superveniens ai ricorsi proposti in un torno di tempo anteriore all'entrata in vigore del codice, Cons. Stato, Ad gen., parere 22 febbraio 2011, n. 4520). Tale sviluppo normativo di cui si e' dato conto depone nel senso dell'assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale. Ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialita' tali da segnalare la contiguita' alle pronunce del giudice amministrativo. Assume rilievo decisivo, in particolare, lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimita' costituzionale. Una volta acquisito che la paternita' effettiva della decisione e' da ricondurre all'apporto consultivo del Consiglio di Stato connotato da una suitas giurisdizionale e che, pertanto, il provvedimento finale e' meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo, si deve convenire che l'atto finale della procedura e' esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzieta' e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimita' dell'atto impugnato (cosi' Cass., Sez. un., 19 dicembre 2012, n. 23464). In definitiva il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell'organo e della forma dell'atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, e' estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell'intangibilita', propria del giudicato, all'esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti. La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio e' corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Merita menzione, in particolare, l'art. 7, comma 8, che, nel quadro di una disciplina dedicata alla definizione del concetto e dell'estensione della giurisdizione amministrativa, limita la praticabilita' del ricorso straordinario alle sole controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo e, quindi, ai campi nei quali, in ragione della consistenza della posizione soggettiva azionata o in funzione della materia di riferimento, il giudice amministrativo e' dotato di giurisdizione. La «giurisdizione» diventa quindi presupposto generale di ammissibilita' del ricorso straordinario, non diversamente da quanto accade per il ricorso ordinario al giudice amministrativo. In tal guisa si sancisce l'attrazione del ricorso straordinario nel sistema della giurisdizione amministrativa di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione. La rimozione della possibilita' che il ricorso straordinario sia promosso in materie in cui il giudice amministrativo e' privo di giurisdizione, rafforza, poi, il connotato dell'alternativita' del rimedio, cancellando l'ipotesi di un ricorso straordinario concorrente, nelle materie estranee alla giurisdizione amministrativa, con quello giurisdizionale e, soprattutto, eliminando l'ostacolo che tale anomalia avrebbe rappresentato sulla strada della sostanziale giurisdizionalizzazione di siffatta tecnica di tutela. Proprio la valorizzazione delle coordinate normative fin qui esaminate ha di recente indotto la Corte di legittimita' ad assegnare al decreto che definisce il ricorso straordinario la valenza di decisione costituente esercizio della giurisdizione riferibile, nel contenuto recato dal parere vincolante, al Consiglio di Stato, naturaliter sottoposta al sindacato delle Sezioni unite della Corte di cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione ex articoli 111, comma 8, Cost., 362, comma 1, del codice di procedura civile e 110 del codice del processo amministrativo (Cass., sezioni unite, 19 dicembre 2012, n. 23464). La Corte di cassazione ha nell'occasione osservato che il riconoscimento della natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, con il corollario dell'ammissibilita' del sindacato della Corte di cassazione sul rispetto dei limiti relativi alla giurisdizione, non contrasta con il disposto dell'art. 125, comma 2, Cost., in materia di istituzione in ambito regionale di organi di giustizia amministrativa di primo grado, in quanto, anche a non considerare che la riserva, elaborata dalla giurisprudenza costituzionale intende in realta' impedire l'attribuzione ai tribunali amministrativi regionali competenze giurisdizionali in unico grado (Corte cost. n. 108 del 2009), in ogni caso la garanzia del doppio grado di giurisdizione e' pienamente assicurata dalla circostanza che sono le stesse parti ad optare per il procedimento speciale che consente l'accesso per saltum al Consiglio di Stato. La circostanza ipotetica che il decreto presidenziale possa essere affetto da vizi propri del procedimento successivo all'adozione del parere, connessa alla struttura ancora composita del ricorso straordinario e radicata nelle origini storiche dell'istituto, non inficia ne' indebolisce l'essenza giurisdizionale della decisione che ha come unico sostrato motivazionale il parere vincolante reso dal Consiglio di Stato. La tendenziale assimilazione del ricorso straordinario a un rimedio schiettamente giurisdizionale e' stata ribadita dalla Corte costituzionale che, con la sentenza 26 marzo 2014, n. 73, ha ritenuto infondato il dubbio di legittimita' costituzionale, sotto il profilo del difetto di delega, dell'art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo, osservando che, per effetto di queste modifiche, «l'istituto ha perduto la propria connotazione puramente amministrativa e ha assunto la qualita' di rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo». 4.2.2. Le considerazioni svolte da questa Adunanza plenaria e dalla giurisprudenza della Corte delle leggi e della Corte di legittimita' sulla portata sostanziale delle modifiche apportate alla disciplina dell'istituto, e sulla conseguente riconducibilita' a dette novita' del superamento della connotazione amministrativa del rimedio, impediscono di ritenere che anche alle decisioni rese in precedenza possa essere riconosciuta una valenza giurisdizionale e, quindi, l'intangibilita' propria della res iudicata. Si deve infatti convenire che non viene in rilievo una revisione interpretativa di portata retroattiva, ma una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di «funzione giurisdizionale» nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1. A sostegno dell'assunto della portata non retroattiva della novella si pone, quindi, la decisiva considerazione che la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum e' ora fondata sulla riconduzione, gia' in astratto, della paternita' esclusiva della decisione all'autorita' giurisdizionale. Ne deriva l'assenza di detto requisito sostanziale per le decisioni adottate in un regime caratterizzato, prima dell'entrata in vigore dell'art. 69 della legge n. 69/2009, dalla concorrente paternita' in capo all'autorita' amministrativa, legittimata a esprimere, attraverso un aggravamento procedurale, un avviso contrario a quello sostenuto nell'apporto consultivo del Consiglio di Stato. Si deve soggiungere che non assume rilievo la circostanza concreta che, con riferimento al singolo ricorso, il parere del Consiglio di Stato non sia stato disatteso, in quanto la natura giurisdizionale, o non, di una proceduta rimediale non puo' che essere valutata alla stregua dal dato astratto del paradigma normativo di riferimento. Paradigma che, prima delle riforme di cui si e' dato conto, non attribuiva al giudice amministrativo il potere di decidere in via esclusiva l'esito della controversia. 4.2.3. Non giova agli appellanti l'insistito accento sul maggioritario indirizzo pretorio che ammette il rimedio dell'ottemperanza, ex art. 112 del codice del processo amministrativo, anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell'assetto normativo tradizionale. Si deve, al riguardo, convenire con l'amministrazione appellata nel senso che l'ottemperabilita' di una decisione e' una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge. Posto, infatti, che, nell'architettura dell'art. 112, comma 1, del codice del processo amministrativo, il giudizio di ottemperanza non e' ammesso solo per le sentenze passate in giudicato (lettere a), c) e d), primo inciso), ma anche per le sentenze esecutive e per i provvedimenti esecutivi (lettera b), per i provvedimenti equiparati (lettera d) e per i lodi arbitrali (lettera e), si deve concludere che la questione dell'equiparazione della decisione su ricorso amministrativo extra ordinem a una sentenza passata in giudicato dal punto di vista della procedura «di attuazione dello iussum - risolta in senso positivo dalla giurisprudenza prevalente alla stregua del principio processualistico tempus regit actum, sotteso all'art. 5 del codice di procedura civile - non si ripercuote sul differente tema della sussistenza di una forza sostanziale del regolamento decisorio sussumibile nel concetto di giudicato e, quindi, tale da resistere al dispiegarsi dell'intervento legislativo. A tale ultimo quesito non puo' che rispondersi negativamente, in quanto l'intangibilita' del decisum, alla stregua dei parametri normativi nazionali, presuppone una paternita' esclusivamente giurisdizionale che nella specie era esclusa dallo schema normativo di riferimento ratione temporis operante. 4.3. Tali coordinate interpretative sono state poste a fondamento della sentenza n. 282/2005 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale degli ultimi due periodi del comma 4 dell'art. 50 della legge n. 388/2000. La disposizione censurata, in tema di trattamento economico dei magistrati, disciplina, con una norma di interpretazione autentica, la portata e la decorrenza dell'abrogazione del nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, norma, quest'ultima, ai sensi della quale per il personale che avesse conseguito la nomina a magistrato di corte d'appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l'anzianita' veniva determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianita' effettiva che lo seguiva nel ruolo. La disposizione oggetto del dubbio di legittimita' costituzionale precisa, in primo luogo, che il citato nono comma dell'art. 4 si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, il quale, con l'art. 2, comma 4, aveva soppresso l'istituto dell'allineamento stipendiale; prevede inoltre che, per effetto di detta abrogazione con effetto retroattivo, perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorita' giurisdizionali comunque adottati, dopo la data suindicata, difformemente dalla predetta interpretazione, e che, in ogni caso, non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti. Il giudice a quo aveva denunciato questa norma nella parte in cui, esplicitando la portata retroattiva dell'abrogazione da essa contemplata, dispone la perdita degli effetti delle decisioni irrevocabili rese nel regime dell'alternativita' dal Presidente della Repubblica adito con ricorso straordinario ed intervenute prima della sua entrata in vigore. Con la sentenza n. 282/2005 la Corte costituzionale, dopo avere premesso che il suo esame si sarebbe limitato ai confini del thema decidendum individuato dall'ordinanza di remissione, ha ritenuto che la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 50, volta a riconoscere un'incompatibilita' sistematica gia' realizzatasi, con riguardo all'istituto del riallineamento stipendiale, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, deve essere intesa, alla luce del dato letterale e dell'argomento costituzionale, nel senso di fare salve le sentenze passate in giudicato, mentre non esiste alcuna preclusione che impedisca l'operativita' dell'intervento legislativo ai danni delle decisioni adottate, nel regime dell'alternativa, con decreto del Presidente della Repubblica in sede di decisione sul ricorso straordinario. La Corte ha osservato, sul punto, che «essendo il ricorso straordinario al Capo dello Stato un rimedio per assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa, deve escludersi che la decisione che conclude questo procedimento amministrativo di secondo grado abbia la natura o gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale». Di qui la conclusione secondo cui la disposta perdita di efficacia dei provvedimenti (tali dovendosi considerare i decreti del Presidente della Repubblica con cui vengono decisi i ricorsi straordinari) comunque adottati difformemente dalla interpretazione che vuole abrogato il nono comma dell'art. 4 della legge n. 425 del 1984 sin dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, non lede i parametri costituzionali invocati, in quanto la garanzia costituzionale da essi prevista si riferisce al diritto di agire nella sede giurisdizionale e non nella sede amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. 5. Esclusa la praticabilita' della via dell'interpretazione della norma in esame secondo un'accezione compatibile con la salvaguardia delle precedenti decisioni rese in via definitiva su ricorsi straordinari, quest'Adunanza reputa non manifestamente infondati i dubbi di legittimita' costituzionale che la lettura ora esposta pone con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., alla luce dei parametri CEDU, non esaminati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 282/2005. Il collegio reputa infatti seri, alla luce dei parametri ricavabili dalla CEDU, e quindi alla stregua dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, i dubbi relativi all'art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui detta norma, nell'unica interpretazione plausibile, produce il travolgimento di una decisione alternativa di giustizia che, pur non avendo carattere schiettamente giurisdizionale, risolve in modo definitivo e inoppugnabile una controversia. 5.1. Osserva, in via preliminare, questa Adunanza che la garanzia dell'affidamento legittimo del ricorrente vittorioso in merito all'intangibilita' dell'assetto di interessi sancito della decisione favorevole viene tutelato, in ambito comunitario ed europeo, secondo un'accezione lata ed elastica del concetto di «giurisdizione», che non attribuisce rilievo al profilo qualificatorio e al dato formale, ma valorizza la definitivita' della decisione e l'essenza giustiziale della funzione. In questo quadro si iscrive la giurisprudenza della Corte di giustizia UE che, a partire dal leading case di cui al parere della sezione V, 16 ottobre 1997, in cause c-69/96 e 79/96, ha considerato il Consiglio di Stato che esprime il parere in sede di ricorso straordinario una giurisdizione legittimata a sollevare questioni pregiudiziali di carattere interpretativo ai sensi dell'art. 234 del trattato CE (art. 267 del trattato per il funzionamento dell'Unione europea), mettendo l'accento, alla luce del principio generale del cd. «effetto utile», sulla sussistenza di un organo permanente con funzioni giustiziali, sulla funzione di risoluzione di controversie in via imparziale e indipendente nonche' sul carattere contenzioso della procedura e sulla definitivita' dell'esito della stessa. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha fornito, dal canto suo, un contributo decisivo alla piena equiparazione, sotto il profilo dell'assimilazione dei livelli di tutele, tra decisioni giurisdizionali e amministrative, rimarcando, a piu' riprese, che, ai sensi degli articoli 6 e 13 CEDU, le decisioni finali di giustizia, rese da un'autorita' che non fa parte dell'Ordine giudiziario, ma che siano equiparate dal punto di vista procedurale e dell'efficacia a una decisione giudiziaria, devono essere passibili di attuazione coattiva in un sistema che prevede esecuzione come seconda e indefettibile fase della lite definita («The execution must be riguaded as an integral part of trial»). Piu' in radice, siffatte statuizioni devono essere caratterizzate dall'intangibilita' dell'assetto stabilito con l'atto decisorio, ai fini della salvaguardia dell'affidamento legittimo ingenerato (C.E.D.U. 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romosirov c. Ucraina; 19 marzo 1997, Hornsby c, Grecia). In questo tessuto di garanzie, volto a limitare l'emanazione di norme retroattive, risultano vietate norme retroattive sfavorevoli che estendano l'applicabilita' di una norma interpretativa a precedenti decisioni irrevocabili, ossia ad arret definitive et obligatoire (C.E.D.U., sez. IV, Zielinski c. Francia, 28 ottobre 1989; sez.. IV, 10 novembre 2004, Lizarraga c. Spagna, che ha escluso che una legge retroattiva possa incidere contra personam ed estinguere intangibile right). 5.2. Tale indirizzo giurisprudenziale induce a ritenere che l'ordinamento italiano, nella misura in cui ammette l'intervento di una legge provvedimento volta a vanificare decisioni definitive, anche se non stricto sensu giurisdizionali, si pone in sospetto contrasto con l'ordinamento convenzionale europeo che impone un superiore standard superiore di tutela, prevedendo, ai sensi degli articoli 6 e 13 della CEDU, come vivificati dall'interpretazione fornita dalla Corte europea, l'assoluta intangibilita' anche delle decisioni amministrative caratterizzate da una judicial review, come tali equated to a Court decision. Viene, quindi, in gioco il pacifico principio della prevalenza delle disposizioni CEDU che prevedono livelli superiore di protezione rispetto alle Costituzioni nazionali (Corte cost. n. 311/2009), sulla scorta di principi vieppiu' applicabili nell'ordinamento nazionale anche in epoca anteriore alla riforma dell'art. 117 Cost. (vedi Corte cost. sentenze n. 348 e n. 349/2007 sull'incostituzionalita' parziale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333/1992, in materia espropriativa). Dette coordinate ermeneutiche sono con evidenza riferibili anche alla decisione sul ricorso straordinario che, anche nella conformazione anteriore a quella plasmata dalla legge n. 69/2009, era caratterizzato, nelle materie affidate dalla giurisdizione amministrativa, «dall'irrevocabilita' e immodificabilita' della decisione e dalla sua insindacabilita' da parte di ogni altra autorita' amministrativa e giurisdizionale» (cfr., ex multis, Corte di giustizia dell'Unione europea 18 settembre 2003, C-292/01; 23 dicembre 2009, C-303/08). Stante la pacifica integrazione dei canoni costituzionali, ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost., con le norme CEDU quali nome interposte (nella specie gli articoli 6 e 13 del trattato CEDU), risultano pertanto non manifestamente infondati i dubbi legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4, ultimi due periodi, della legge n. 388/2000, nella parte in cui detta norma prevede la vanificazione degli effetti di una decisione definitiva di giustizia che, secondo i parametri convenzionali, va equiparata a una decisione giurisdizionale dal punto di vista dell'effettivita' e della pienezza della tutela oltre che dell'intangibilita' dell'affidamento ragionevole e legittimo assicurato dall'esito del giudizio. Posto, infatti, che la tutela delle posizioni dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi degli amministrati e' assegnata dall'ordinamento positivo anche al ricorso straordinario in via alternativa, sono di dubbia compatibilita' con la giurisprudenza CEDU, in punto di garanzia della piena tutela giurisdizionale e del giusto processo, le limitazioni legislative che pregiudicano l'effettivita' di tale rimedio vanificandone gli esiti definitivi. 6. La normativa in questione pone anche dubbi di compatibilita' con gli articoli 3 e 97, Cost., in quanto, alla stregua delle coordinate interpretative tracciate dalla Consulta (vedi Corte cost. 376/1995; 282/2005; 103/2007; 267/2007; 241/2008), con la legge provvedimento non e' possibile esercitare un potere, atipico rispetto al novero dei poteri amministrativi tipizzati, diretto a incidere in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili. Piu' in generale la cancellazione degli effetti di singole decisioni ai danni dei ricorrenti vittoriosi rischia di arrecare un vulnus, non giustificato da idonee ragioni di interesse generale, al principio di eguaglianza e al canone di ragionevolezza. 7. Per quanto precede, si profilano non manifestamente infondati, oltre che rilevanti, i dubbi relativi alla legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui tale norma, esplicitando la portata retroattiva dell'abrogazione da essa contemplata, prevede che questa possa travolgere anche posizioni individuali gia' riconosciute mediante decisioni su ricorsi straordinari ormai divenute definitive, in sospetto conflitto con gli articoli 3, 97 e 117 della Costituzione. Va quindi disposta la sospensione del giudizio, con rimessione degli atti alla Consulta e riserva di ogni ulteriore decisione.